Intervista a Aldo Colonetti: Vino e design
Intervista a Aldo Colonetti: l’equilibrio sensoriale tra vino e design from SGA Wine design on Vimeo.
Aldo Colonetti, filosofo, storico e teorico dell’arte, del design e dell’architettura.
Direttore Scientifico del Gruppo IED (Milano, Torino, Roma, Venezia, Madrid, Barcellona, San Paolo) dal 1998, è vicepresidente della Fondazione Francesco Morelli e dell’Istituto Europeo di Design. Dal 1991 è direttore del magazine di architettura contemporanea e design Ottagono, e responsabile editoriale di Editrice Compositori.
Autore di saggi, curatore di mostre e promotore di diverse iniziative culturali, in Italia e all’estero, è consulente, per quanto riguarda il design e l’architettura, della Direzione Culturale del Ministero degli Esteri. Ha ricevuto dalla regina Elisabetta II, nel 2001, il titolo di Member of the British Empire per meriti culturali. Dal 2009 fa parte del Consiglio Nazionale del Design, sotto l’egida dei Ministeri dei Beni Culturali, degli Esteri e delle Attività Produttive. Dallo stesso anno fa parte del Consiglio di Amministrazione del Centro Legno e Arredo Cantù.
Il design italiano ha sempre avuto un appeal internazionale, quali le ragioni? Perché un’azienda straniera dovrebbe affidare un progetto ad uno studio di design italiano?
Il design italiano è un complesso sistema culturale, che fa perno sulle imprese specializzate in questo ambito. Non è la carta d’identità a circoscriverne i limiti: in molti casi un progetto di design può essere considerato “italiano” anche se ideato all’estero o da designer stranieri che operano nel nostro territorio.
La nostra specificità e il nostro appeal internazionale sono strettamente legati alla qualità del sistema culturale che il design italiano, anche quando si esprime attraverso un progetto straniero, è in grado di trasferire al prodotto.
Siamo quotidianamente sommersi da oggetti, ma quando diventano di “design”? Cosa significa?
Il design, applicato a un qualsiasi oggetto, diventa elemento determinante non tanto per il valore estetico e simbolico che è in grado di conferire. Il design deve in primo luogo essere in grado di declinare la funzione o la specificità di un oggetto alla sua finalità, essere capace di decontestualizzarlo dalla cronaca, e soprattutto di renderlo capace di parlare al mondo in tempi lunghi.
Pensiamo ad esempio alla lampada Arco dei fratelli Castiglioni, che nacque all’inizio degli anni ‘60: si tratta di un prodotto straordinario, che tuttora rappresenta una parte importante del fatturato della Flos.
Quando una bottiglia, un contenitore di bevande alcoliche, ma anche di olio, di distillato, di spumante, diventa un oggetto di design?
Quando il design ha a che fare con il cibo e gli alimenti in senso lato, deve rispettare una regola fondamentale, recentemente tema di un libro al quale ho lavorato con l’esperto gastronomo Alberto Capatti di Slow Food (Design in cucina. Oggetti, riti, luoghi - Giunti Editore). Applicato agli alimenti, il design deve essere in grado di esprimere una particolare caratteristica sinestetica, rendendo il prodotto capace di catturare l’attenzione ed evocare una reazione sensoriale.
Quando il design affronta il tema del cibo è, però, necessario un grande equilibrio: il prodotto non deve essere caricato oltre i propri valori e contenuti, e deve essere evitata una sua eccessiva spettacolarizzazione. In ambito alimentare, la creatività è molto più difficile che in altri, perché ha a che fare con un prodotto vivo, che si evolve.
La nostra vestizione per La Lepre di Fontanafredda
Il design è un fenomeno che ha mutato il valore degli oggetti di uso quotidiano sia da un punto di vista estetico che dei valori simbolici veicolati; questo aspetto riguarda anche il packaging dei prodotti. In che modo il design può contribuire alla scelta di un prodotto?
In qualsiasi campo della realtà manifatturiera italiana e internazionale, un prodotto raggiunge il successo se, partendo da una fondamentale qualità di base, compie tutto il proprio percorso creativo e distributivo in modo coerente e complementare con essa.
Capita che prodotti di eccellenza rimangano in ombra a causa di un mancato o errato sviluppo di questo percorso; ma non è raro assistere a fenomeni di segno contrario, con oggetti marginali o mediocri portati a un successo straordinario dalla capacità comunicativa e performativa della distribuzione. Parlare di packaging significa necessariamente affrontare l’importante tema della distribuzione: in ambito alimentare, ma non solo, il packaging gioca un ruolo centrale, risultando parte integrante del sistema progettuale del prodotto.
Dagli anni ’80, il vino italiano ha vissuto un percorso evolutivo straordinario, che ha portato alla necessità di un’evoluzione anche da un punto di vista estetico. Quali sono le implicazioni?
Rispetto agli anni ‘80, oggi il vino italiano gode di una straordinaria autorità, maturata in risposta a una grande crisi che lo ha costretto a rifondarsi attraverso un profondo mutamento nel modo di intendere la cultura del territorio. Quando se ne progetta l’estetica, è dunque importante tenere conto del concetto di territorialità, valorizzandolo dal punto di vista visivo ma soprattutto ad un livello “multisensoriale”. Una bottiglia o un’etichetta, attraverso la grafica e il design, dovrebbero rappresentare la storia di persone, luoghi e cose, in sintonia con l’intera filiera di produzione.
Vestizione di Vigna Mandorlo di Fratelli Giacosa
Scegliere un vino implica conoscenza. Ma non sempre è così. Quanto la vestizione di un vino influenza la percezione della sua qualità?
Il vino è un prodotto che affida se stesso a una bottiglia, ad un’etichetta ed ad una logica di distribuzione ad esso applicata. Però, è bene ricordare che la vestizione è determinante. I grandi vini hanno sempre una vestizione “low profile”. Non che non sia presente la creatività ma, magari, viene concentrata in alcuni aspetti dei linguaggi utilizzati: un lettering che ha fondamenti storici o culturali oppure in un nome. Non so se sia una vera e propria regola, ma ho notato che spesso funziona.
Dagli anni ‘90 la progettazione architettonica di alcune cantine è stata affidata a architetti di fama internazionale, dando vita ad un fenomeno che coinvolge tutto il mondo, in particolare quello produttivo. Come dovrebbe operare un architetto o un designer che si avvicina al tema del vino?
Ci sono esempi interessanti di questo fenomeno in Italia e Spagna. Io amo le architetture che, pur non rinunciando alla forza espressiva dell’architetto, sanno integrarsi con il territorio, dialogando con l’ambiente in modo non impositivo, ma complementare. In un luogo di produzione in cui è la natura l’elemento determinante, una pura espressione di volontà di potenza dell’architetto è disturbante. In una cantina apprezzo anche l’inserimento di qualche elemento che rappresenti simbolicamente la relazione storica tra vino e territorio. Quando rispetta questo profilo, una cantina d’autore diventa sito da visitare, oltre che luogo di marketing e comunicazione.
Immagine coordinata della tenuta Petra di Terra Moretti
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