Nell’oasi della Lugana l’anima di Zenato, incontro con gli autori: Avesani e Radino.
Le straordinarie foto di Francesco Radino, gli interessanti e coinvolgenti contributi di Bruno Avesani e Cesare Pillon: è stata inaugurata lo scorso 12 aprile, nella magica atmosfera della Biblioteca capitolare di Verona, la mostra “Nell’oasi della Lugana l’anima di Zenato”.
Come curatori del progetto della mostra e del volume che l’accompagna, non potevamo mancare al vernissage, introdotto dal Prefetto della Biblioteca capitolare Monsignor Fasani, presenti la famiglia Zenato, l’editore Biblos e il sindaco del capoluogo scaligero, Federico Sboarina. Naturalmente c’erano anche gli autori, cui abbiamo avuto occasione di rivolgere qualche domanda.
I relatori introdotti da Mons. Bruno Fasani
Bruno Avesani, docente di lettere nei licei, socio corrispondente dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, ha condotto una sistematica e appassionata esplorazione del territorio veronese intesa a mettere in luce i caratteri originali di piccole collettività. Ha dato alle stampe una decina di monografie focalizzate sulla storia di comunità veronesi, sulla base di scrupolosi dati archivistici e indagini condotte sui luoghi, rilevazioni fotografiche e cartografiche. In questi ultimi anni ha indirizzato i suoi studi sulle attività vitivinicole di importanti aziende operanti nel veronese.
Il racconto, in inglese storytelling, della propria storia e dei propri valori, per le piccole aziende vinicole costituisce un’attività indispensabile.
Qual è secondo lei il giusto approccio?
Le aziende vinicole hanno la responsabilità di raccontare la storia del territorio. La vite, presente nel paesaggio dall’inizio della civiltà occidentale, in questi ultimi tempi è diventata l’espressione più alta dell’agricoltura nel nostro territorio, un elemento valorizzante. Per avere coscienza di quello che è stata la vite nel passato e di quello che è oggi, bisogna prestare attenzione alla storia. La vite stessa è storia del territorio.
Perdita di memoria, superficialità e frammentarietà, impoverimento del linguaggio. Che utilità possono avere iniziative culturali in relazione al contesto attuale?
Oggi fare qualsiasi attività significa fare delle scelte ponderate, che non sono mai date una volta per tutte, ma che vanno rinnovate ogni giorno. Se noi agiamo nel territorio conoscendone il passato e facendo un progetto per il futuro possiamo fare le scelte giuste.
Come storico e conoscitore del territorio veronese, quali ritiene siano stati i cambiamenti più significativi avvenuti in quest’area?
Nel veronese ci sono stati dei cambiamenti epocali a partire dalla rivoluzione industriale, che ha sconvolto e rimodellato notevolmente il nostro territorio. Oggi è doveroso prendere coscienza di questi mutamenti, ma anche cessare di avere un atteggiamento consumistico verso il territorio. Noi possiamo usarlo, trasformarlo se necessario, ma sempre nell’ottica di un progetto per il futuro e soprattutto sempre con rispetto. L’obiettivo è avere un territorio che sia migliore domani di quello che è oggi.
Francesco Radino
Francesco Radino nasce a Bagno a Ripoli da genitori entrambi pittori. Dopo gli studi di sociologia a Trento nel 1970 decide di diventare fotografo professionista e sceglie di operare in vari ambiti: fotografia sociale, fotografia industriale, design, architettura, paesaggio. È oggi considerato uno degli autori più influenti nel panorama della fotografia contemporanea in Italia.
«Non è lo spazio che dev’essere eccezionale ma lo sguardo di chi osserva». Può approfondire questa sua affermazione?
Questa è una delle chiavi della fotografia: lo sguardo. Ci sono fotografie di bei posti e ci sono sguardi che osservano e scavano e vanno in profondità. La fotografia è un linguaggio metastorico, un linguaggio che sta accanto a quello della realtà, in cui il tempo deraglia e si ferma. Si ferma all’interno di una messa in scena in cui lo sguardo è determinante più che la realtà stessa. Può per esempio capitare che posti insignificanti diventino significanti e diventino grandi immagini attraverso lo sguardo di grandi autori. Ne è un esempio Robert Frank, che a volte fotografa soggetti che possono sembrare insignificanti ma che vanno in profondità nella realtà, che ci portano un grande rimando nell’indagine dei luoghi, nell’indagine degli sguardi, delle storie delle persone. Quindi nella documentazione e nella ricerca dell’identità dei luoghi e dei popoli.
Dalla sua ricerca emerge una sensibilità che sconfina in quella artistica.
Ce ne può parlare?
Ho avuto entrambi i genitori pittori e la mia formazione è stata più pittorica che fotografica. Da bambino mi portavano a vedere le mostre dei grandi autori del Novecento, degli impressionisti, della fotografia antica e moderna. Così ho cominciato a capire i concetti, le modalità e le forme della rappresentazione che poi si propaga all’immagine fotografica e vive attraverso gli stessi equilibri. Una messa in scena in cui un aspetto della realtà viene inquadrato, rivisitato; viene scelto il momento, la luce, la densità e il colore. E si produce una trasformazione attraverso lo sguardo di chi realizza l’immagine e attraverso il mezzo tecnologico che ci permette di realizzarla. L’unione di queste cose, tutto il portato della storia e dell’esperienza di chi guarda e tutta la tecnologia che poi produce l’immagine si fondono insieme per produrre un immaginario che è unico per ogni autore.
Nel recente lavoro svolto per Zenato in Lugana il suo sguardo sembra liberarsi ancor più, restituendo immagini di luce e colore. Guardando queste immagini si ha l’impressione di oltrepassare la realtà e di trovarsi in uno spazio onirico.
Questa è un’altra delle caratteristiche della fotografia: ha molto a che vedere con l’immaginazione, il sogno. Non è la realtà determinante ma proprio la capacità degli autori di farsi trasportare all’interno dell’immagine, di produrre delle immagini che partono dalla realtà ma si allontanano rapidamente da essa. Quindi, soprattutto in questo lavoro che raccoglie immagini di un luogo magico, tra Lombardia e Veneto, è facile lasciarsi prendere dai colori, dalle forme, da una visione che si astrae dalla documentazione e va oltre; produce delle impressioni, produce dei colpi di luce, dei colpi d’occhio che diventano il tessuto portante del racconto e che gli danno forza. Lo stesso vigore si è riversato nell’obiettivo che mi ero preposto, quello di raccontare un territorio, una produzione, senza un’intenzione documentaria, ma con una visione puramente onirica.
Da sinistra: Bruno Avesani, Francesco Radino, Giacomo Bersanetti, Nadia Zenato, Luciano Ferraro, Cesare Pillon.
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