La creazione di valore quale perno di un’azienda
Quanto è importante per un’azienda porre le basi, in maniera distintiva, per le proprie identità e immagine, nel momento in cui sta per entrare nel mercato o, nel caso già ci fosse, volesse migliorare la propria reputazione?
Il tema dell’identità in generale dell’impresa, ma devo dire specificatamente dell’impresa vitivinicola, è un tema centrale, decisivo e complesso; per ciò va affrontato con giusto rigore, come deve essere ogni argomento che ha nella sua risposta anche la soluzione. Ogni azienda del vino è anzitutto una storia, tanto più efficace quanto più è credibile.
E da cosa è data la credibilità?
Da una serie di ingredienti, primo dei quali è la figura, la personalità, il carisma del titolare, o comunque quello che noi nel mondo del marketing chiamiamo testimonial dell’azienda. Chiaro che il carisma è come il carattere, se uno non ce l’ha è difficile trasfonderlo per endovena.
Tuttavia, la tua domanda iniziale è una domanda che bisogna porsi alla partenza della storia dell’azienda e continuare a porsi durante lo sviluppo; mi riferisco a quel particolarissimo feeling che si crea tra testimonial aziendale e l’azienda stessa. Feeling che a volte diventa così condizionante per cui il testimonial è l’azienda stessa e quando quegli non c’è più, si pone il problema di come sostituirlo.
Da dove parte quindi l’identità?
Non c’è dubbio, dalla figura dell’imprenditore ma non si esplica tutta in esso, è frutto infatti di diversi connubi. Dimenticarsi che l’identità è prima di tutto identità territoriale è estremamente pericoloso (il vino è prima di tutto territorio); non sono parole di circostanza, il territorio è decisivo nel generare coerenza e credibilità col personaggio che lo rappresenta. Non solo: anche proteggerlo, il territorio, è una responsabilità dell’imprenditore, una responsabilità che travalica quella dell’imprenditore stesso, giacchè diventa di tipo sociale; come dire, si tratta di una “doppia fertilizzazione”: porta vantaggi all’azienda e alla collettività, e anche di quelli della collettività l’imprenditore deve farsi carico. Quel che noi, uomini di marketing, chiamiamo mission aziendale.
Che cosa è esattamente una mission?
Uno dei grandi obiettivi dell’imprenditore (vitivinicolo), quello cioè di modellare il territorio e quindi la sua identità, come la storia della viticoltura, italiana e no, ha fatto; se noi pensiamo alle colline e alle aree vitate di tante zone, in realtà ci accorgiamo che il titolare dell’azienda è stato veramente l’architetto del paesaggio; e molto spesso questa architettura del paesaggio tanto più è rimasta, non dico integra nella tradizione, ma curata, sensibilizzata attraverso l’attenzione delle aziende, tanto più corrisponde a un successo di mercato.
Non credo invece all’opposto, cioè all’azienda che riesca a prescindere dal territorio.
Questo mi pare un dibattito assai acceso.
Lo è. Eccome. Spinge i produttori a chiedersi, per esempio, se aderire o no alle denominazioni, o - perchè insoddisfatti, soffocati - se uscirne.
Questo aspetto ha a che fare con il rapporto tra brand aziendale e brand collettivo, e di nuovo siamo dentro al problema dell’identità. Io dico che i due brand costituiscono un matrimonio perfetto, perchè riassumono in sè esigenze ugualmente necessarie.
Una domanda che riguarda il passaggio generazionale. In Italia l’enologia ha lunga storia come produzione, ma recente come imprenditorialità, e solo da alcuni anni stiamo assistendo ai primi veri passaggi generazionali, che risultano molto delicati. Tu hai affermato che l’imprenditore che ha iniziato costituisce il punto di riferimento aziendale, ma cosa bisogna fare per non perdere il patrimonio che egli ha generato?
Io faccio il professore e quindi mi occupo di “passaggi generazionali”; anzi, li vivo, li soffro; talvolta mi ritrovo parte attiva di alcune situazioni familiari.
Su questo tema, mi sento ottimista, sin quasi all’ingenuità, e lo voglio dire davvero col cuore: vedo una nuova generazione straordinaria. Intanto è vero che la titolarità delle aziende vitivinicole italiane è giovane, ma nata da una scarsissima cultura d’impresa; quasi miracolistico il loro successo. Lo affermo con grande rispetto, sia chiaro, per i titolari e per chi ha creato da zero un successo mondiale.
Ma su cosa si è fondato questo successo?
Certo non sui “fondamentali” dell’economia; se li guardiamo sulla carta, spesso notiamo che sono stati davvero molto deboli in proporzione al risultato ottenuto; tuttavia, le aziende non solo sono cresciute ma addirittura si sono imposte, e questo probabilmente per un mix di circostanze: vuoi alla personalità del titolare, vuoi al momento del mercato, vuoi perchè il consumatore partiva da una conoscenza ridotta del prodotto e quindi aveva fame di domande e informazione.
Ora, quell’epoca in qualche maniera deve finire, come tutti i mercati il dinamismo chiede innovazione e cambiamenti, ed ecco che il passaggio generazionale diventa una grande occasione.
Ma da dove ti viene questo ottimismo?
Da due fatti: 1, io cerco di laureare giovani che prima di tutto scelgono questo corso di laurea e professione per passione, anche quando sono figli d’arte (ma proprio la passione è il più importante ingrediente che un genitore possa desiderare per il figlio, qualunque sia il mestiere che faccia); 2, la formazione anche nel settore vino è, sebbene soltanto in parte, diventata d’impresa; laddove c’era in passato una larga componente tecnica (ottimi enologi, grandi esperti di viticultura e così via), oggi sempre più esiste la formazione di imprenditori, di manager, di uomini e donne che mettono al centro dell’attività proprio la cultura d’impresa.
Come è stato, viene e dovrebbe essere vissuto l’investimento da parte dell’azienda in tema di packaging e di identità aziendale?
È un tema molto vicino alla questione del passaggio generazionale e in generale con la cultura d’impresa. Permettimi prima un piccolo passo indietro: se ripercorriamo la storia delle imprese vitivinicole italiane, quando nascevano le prime personalità pioneristiche (e ne sono nate tante) portavano con sè elementi sia positivi sia negativi. Positivi: passione, cuore, carisma, spesso questi rappresentavano, inconsciamente, il “marketing aziendale” (la capacità dell’imprenditore di raccontare se stesso e la sua storia facevano comunicazione). Negativi: la dominanza dell’investimento aziendale era in vigna e cantina; fase, ovvio, del tutto necessaria all’inizio, ma con il limite di sottrarre all’imprenditore risorse finanziarie, mentali e fisiche che gli impedivano di guardare oltre. Lasciami dire anche perchè la stessa formazione ricevuta era prevalentemente di tipo tecnico (agricolo-enologico); le scuole infatti erano, nei casi migliori, perito agrario, o enologico, e hanno certo realizzato un lavoro prezioso, ma impostando l’azienda solo sul prodotto.
La svolta sull’impresa market oriented è invece diventata necessaria quando i mercati hanno cominciato a soffrire della saturazione di domanda (effetto che avviene in tutti settori), di condizioni concorrenzali e di investimenti elevati. Qui entra la disciplina che noi chiamiamo marketing ma che è più corretto chiamare orientamento al mercato e soprattutto al consumatore, a ragionare con la sua testa. Cosa però non così diffusa; ancora in tante imprese, la concentrazione è per due terzi dominata dal prodotto, solo per un terzo dal percepito del prodotto; l’indagine stessa su cosa vuole e cerca il consumatore non è così assodata, anzi è un mondo ancora da esplorare in larga misura. Io non credo alle ricette, però si possono ricavare degli elementi oggettivi da questa indagine: per esempio, un’altissima sensibilità del consumatore per l’estetica e per il packaging; fra l’altro, in un paese, come l’Italia, che è padre e madre di tutte le competenze del design, della moda, dell’arte.
Ma non è un paradosso?
Sì. Una prerogativa che dovrebbe essere specifica dell’Italia e centrale negli obiettivi d’azienda, diventa un freno, tanto che l’argomento è considerato più un costo anzichè un investimento. Tuttavia, e lo dico perchè ci credo, le ragioni dei grandi successi nel mondo dei brand aziendali italiani dipende principalmente dal rigore assoluto e da una grande attenzione, anche al minimo dettaglio, del design e dell’estetica. Questa coerenza fa parte della nuova cultura d’impresa e le nuove generazioni - eccolo il mio ottimismo - sono molto sensibili. Lo sono tanto che, probabilmente, rischiamo l‘eccesso opposto, anche se è un contraltare inevitabile di quello che dovrà avvenire, cioè trasformare un’impresa che fa un prodotto in un’impresa che fa eccellenza anche attraverso il modo in cui lo comunica.
E per venire alla mia domanda di prima…
Nella comunicazione moderna, il packaging, il design sono importanti, ma se non si limitano alle necessità spicciole del produttore: etichetta, bottiglia, confezione. La comunicazione viaggia in varie direzioni e oggi abbiamo grandi sfide (purtroppo, quando si parla di sfide, l’azienda pensa di norma al sito web, ma non basta averlo, il punto è come arrivarci e come raccontare una storia in tempi e strumenti diversi dalla parola tradizionale).
Come prepararsi a queste sfide?
Le sedi in cui si può studiare la cultura d’impresa sono certo le università, ma è inevitabile l’affidamento con chi lo fa di mestiere, tanto che dovrà diventare un tema continuo nella vita aziendale. Noi abbiamo avuto la fase cosiddetta dei “flying wine makers”: contavano solo gli enologi, questi non avevano prezzo, venivano addirittura contesi dalle aziende; auguro loro di continuare questo successo, ma sono convinto che in futuro sarà sempre più necessaria una stretta collaborazione con tutte le accezioni di cultura d’impresa, quindi anche del design. Abbiamo un patrimonio troppo grande per non sfruttarlo.
Dalle origini della produzione imprenditoriale, la terra, le attrezzature (fondamentali nell’evoluzione del prodotto), le persone (per la formazione di una sapienza enologica) sono state fondamentali; oggi però, non si può rinunciare alla comunicazione, un investimento che dà benefici nel tempo. Perchè i produttori pensano invece che sia un passaggio quasi forzato e non una risorsa per la salute, la vita dell’azienda?
Mi piace poterti contraddire perchè, ho un’esperienza positiva; mi accorgo, soprattutto nei master, che quando porto testimonianze dirette come modello (non dimentichiamo che uno dei primi insegnamenti è imparare a guardare gli altri), anche l’imprenditore più sprovveduto viene preso da entusiasmo, da voglia nuova, da rinascita, tanto che spesso alla fine della lezione mi vengono a dire che vogliono tornare in azienda e mettere in atto nuove idee.
Un altro aspetto importante. Hai parlato di giovani ansiosi di lanciarsi e realizzarsi; ecco, per noi progettisti, è richiesta la capacità di vedere “prima” quali sono gli obiettivi e di metterli a fuoco, quale l’indirizzo che l’imprenditore vuole attribuire alla propria azienda.
Io non credo alla creazione del look fine a se stesso, che “prende” giovani e meno giovani, per quanto brava sia un’agenzia. Ci deve essere un obiettivo d’impresa. E’ quello, anche fuori dal mondo del vino, che noi docenti proviamo ad insegnare a pagina due del manuale aziendale e che chiamiamo creazione di valore. L’impresa “è” creazione di valore: una cosa che non esisteva l’ho creata, e se l’ho creata va custodita e cresciuta.
In una brutta, o falsa, economia di impresa, il valore è concepito come profitto. Non denigro il profitto, però l’identificazione di obiettivo con profitto non solo è datata ma ampiamente insufficiente. In altri termini, l’azienda cresce se cresce di produzione, di fatturato, di fette di mercato. Assolutamente no!, anche perché esiste una sorta di implosione se la crescita non è guidata.
Dunque, per prima cosa viene il valore. Ma che cosa è questo valore?
Per esempio, io credo moltissimo nell’impresa come istituto sociale, l’impresa è qualcosa che grazie alla creazione di valore, genera esternalità positive, ossia un bene pubblico che viene dato alla collettività e che assume varie forme: posti di lavoro remunerati, protezione, abbellimento, arricchimento del territorio, cultura a beneficio di tutti, rispetto di sè e di ciò che si fa.
Anche questo, se posso usare un parolone, è il valore etico dell’economia; significa che l’obiettivo non può essere raggiunto a prescindere, esistono alcuni riferimenti che poi anche il consumatore stesso riconosce. La chiarezza dell’obiettivo è decisiva.
Cosa è difficile per le nuove generazioni?
La cosa più difficile è identificare un obiettivo raggiungibile e coerente con il cuore dell’azienda. Le nuove generazioni fanno fatica a comprenderlo, se non hanno una guida. Tutte le cose che non nascono ben calibrate, oltre che per i progettisti, sono un enorme problema per le aziende stesse e pertanto, il loro mercato. I cambi di direzione in corsa e continui vengono colti dal consumatore con effetti nefasti.
Una battuta: l’azienda è sempre un’emergenza. Ciò costringe spesso a correre e raramente a riflettere. Ma la riflessione su quelli che sono i punti fondamentali sul percorso di crescita sono importantissimi.
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