I nuovi mercati del vino attraverso lo sguardo di Luca Mazzoleni.
Come intercettare più efficacemente i consumatori stranieri? Quali virtù sono maggiormente riconosciute ai vini italiani all’estero? Come impostarne la comunicazione per rispondere opportunamente all’evoluzione del mercato? Abbiamo posto queste e altre domande cruciali per chi opera (o intende operare) sui mercati internazionali a uno dei massimi esperti del settore in Italia, Luca Mazzoleni, selezionatore e sales man negli USA per diversi anni e fondatore di UnoVino Wine Trading, ditta specializzata nell’intermediazione in vino e prodotti alimentari verso le principali destinazioni export.
Nato a Bergamo nel 1975 e avvicinatosi al mondo del vino grazie ai corsi del Seminario Permanente Luigi Veronelli, dopo la laurea a pieni voti in Storia moderna presso l’Università degli Studi di Milano si sposta a New York per lavoro e lì rimane dal 2002 al 2008. Durante i sei anni negli USA, presso l’importatore Selected Estates of Europe Ltd, opera prima in qualità di responsabile acquisti/selezionatore, e successivamente quale area manager e formatore della forza vendite. A fine 2008, scaduto il secondo permesso di lavoro negli USA, rientra in Italia e fonda UnoVino Wine Trading, ditta individuale di intermediazione in vino e prodotti alimentari verso i principali mercati export. Oggi collabora con oltre trenta aziende in Italia e in Borgogna, aiutandole a esportare in Nord Amarica, Nord Europa e Asia. In aggiunta all’attività di intermediatore con la propria ditta individuale ha ricoperto in passato il ruolo di direttore commerciale presso due aziende vitivinicole italiane di prestigio, l’azienda Gulfi in Sicilia e Tenuta Mazzolino in Lombardia.
In base alla sua esperienza, quali sono le virtù maggiormente riconosciute ai vini italiani dai consumatori stranieri?
In primo luogo il grande patrimonio di vitigni autoctoni che possiede il nostro paese, da nord a sud, capace di generare una produzione vitivinicola eclettica e completa, che risponde a tutte le fasce di mercato e di gusto. I vitigni italiani offrono profumi e sapori individuali e inconfondibili, e generano una varietà di tipologie di vino, regione per regione, che è pari (se non superiore) a quella francese. Il nostro patrimonio ampelografico è la principale alternativa al sistema organico dei vitigni francesi che si sono via via imposti nel mondo tanto da diventare noti come “vitigni internazionali”. Già sul finire degli anni Novanta negli Stati Uniti si sviluppò una reazione all’omologazione dei vitigni internazionali, riassunta dall’acronimo ABC (anything but Chardonnay, tutto tranne lo Chardonnay). Pensiamo ai vitigni aromatici, per esempio, dove l’Italia detiene un vero e proprio primato mondiale per quantità e qualità di produzione: la famiglia dei Moscati, quella delle Malvasie, il Brachetto, il Traminer, l’Aleatico, il Ruché, la Lacrima di Morro d’Alba… sono vini di forte impatto sensoriale, che oggi affascinano per esempio i nuovi consumatori nei mercati dell’Asia. Ricordo un episodio… nel 2012 tenevo una degustazione di vini italiani presso una grande società di importazione alimentare ad Hangzhou in Cina. A un certo punto una giovane degustatrice presente nel pubblico disse «I don’t drink wine but I like Moscato d’Asti, it tastes like grape juice» («non bevo vino ma mi piace il Moscato d’Asti, sa di succo d’uva»).
In secondo luogo, i vini italiani sono considerati “vini da cibo”, cioè vini particolarmente adatti all’abbinamento gastronomico, anche con cucine esotiche e lontane da quella mediterranea. Questo in virtù di una gamma di aromi e sapori assai diversificata da vitigno a vitigno. Aggiungiamo a ciò un livello medio di acidità, di freschezza fruttata e di sapidità abbastanza spiccato, capace di contrastare i sapori forti di cucine piccanti o agrodolci.
Infine, penso che non vada sottovalutata la forza evocativa del brand “Italia” nell’immaginario dei consumatori extra-europei. Il nostro paese è una tra le prime destinazioni del turismo internazionale e quasi ogni grande DOC e DOCG d’Italia porta con sé il ricordo e l’immagine di una destinazione turistica di prestigio, dalla Firenze del Chianti alla Venezia del Prosecco.
I vini italiani sono apprezzati all’estero per le loro numerose qualità, ma devono sostenere una forte competizione. Quali soluzioni permetterebbero di intercettare più efficacemente i consumatori stranieri, per esempio quelli d’oltreoceano?
Se per oltreoceano intendiamo il mercato nord-americano (Stati Uniti e Canada) oppure il Giappone, cioè dei mercati “maturi” e “lavorati” da anni dai nostri consorzi ed export manager, allora si può affermare che i responsabili acquisti dei key accounts nel settore Ho.Re.Ca. delle grandi città possiedono oggi una conoscenza buona o ottima delle nostre DOC e DOCG d’Italia. Alcune tipologie di vino italiano tanto di alta gamma quanto di gamma economica, dal Barolo al Pinot Grigio, sono oggi dei main stay (presenze obbligate) in qualsiasi ristorante o enoteca di buon livello negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone. Si è giunti a questo risultato grazie al “lavoro incrociato” svolto dai consorzi, da Vinitaly/VeronaFiere, dall’ICE, dalle Guide del vino, dagli export manager delle aziende vitivinicole italiane e dai loro importatori e sales managers, un lavoro durato decenni.
Se penso ai primi anni 2000, quando lavoravo e abitavo a New York, c’erano solo due grandi eventi dedicati al vino italiano in città, capaci di attirare la crème degli operatori professionisti e dei giornalisti americani: il Tre Bicchieri Tasting organizzato dal Gambero Rosso nel vecchio Puck Building in midtown Manhattan, e il Benvenuto Brunello Tasting, la presentazione annuale delle nuove annate di Rosso e Brunello di Montalcino patrocinata dal Consorzio. Oggigiorno invece sono tantissimi i banchi d’assaggio dedicati ai vini italiani negli Stati Uniti e in Canada, talora “itineranti” e con cadenza annuale, promossi dai consorzi (almeno quelli più grandi e con più mezzi finanziari) oppure da altri soggetti (penso ai roadshow multi-city di Slowfood e, ancora, Gambero Rosso).
D’altro lato i maggiori consorzi del vino italiano organizzano programmi di incoming in Italia riservati alla stampa e agli operatori stranieri, con un calendario ormai consolidato di tappe attraverso la penisola: penso a Grandi Langhe e Nebbiolo Prima, ad Anteprima Amarone, alle Anteprime toscane di Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano e Brunello di Montalcino, ecc.
Infine, la ristorazione italiana (e pure quella Italian-sounding) è capillarmente diffusa negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone e svolge giocoforza un’azione di promozione e popolarizzazione dei vini italiani.
Se invece per oltreoceano intendiamo la Cina e il Sud-Est Asiatico, l’India, il Sud America e i mercati di frontiera dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale… la situazione è ben diversa. La ristorazione italiana non è ancora capillarmente diffusa e il lavoro “incrociato” di comunicazione e promozione dei nostri vini svolto dai consorzi o da altri soggetti ha ancora molta strada da fare.
Se si propongono denominazioni o vitigni poco conosciuti all’estero, come ne andrebbe impostata la comunicazione? È secondo lei una buona strategia valorizzarne la peculiarità o puntare soprattutto sui riferimenti vitivinicoli e territoriali è un atteggiamento rischioso?
Questa domanda è vitale e al riguardo ho una posizione piuttosto netta. Sono convinto che la strategia di comunicazione per le nostre uve autoctone vada impostata sulle loro peculiarità sensoriali e sui fattori competitivi ed evocativi del territorio d’origine. Trovo anacronistico provare oggi a fare vini di stampo “internazionale” con i nostri vitigni regionali, snaturandone e stemperandone l’identità varietale.
La curiosità e l’apertura mentale non mancano assolutamente ai buyers di qualità tanto nei mercati “maturi” che in quelli “di frontiera”. Nella mia carriera di selezionatore e sales man a New York ho mosso bancali e bancali di Grignolino, Freisa, Pelaverga, Uva di Troia, Susumaniello, Carricante, Perricone, Timorasso, Rossese, Moscato di Scanzo, ecc. e ancora oggi li vendo con grande soddisfazione… sia economica che professionale! Attenzione, non voglio sostenere che qualsiasi vino italiano prodotto da vitigni autoctoni sia di per sé competitivo e commercially viable: vini rustici, incostanti negli anni oppure senza uno spiccato carattere faranno sempre fatica sui mercati export, che siano prodotti con Montepulciano oppure con Cabernet. Ma per il tipo di clienti che io seguo i valori della preservazione dell’autoctono, della sito-specificità di una vigna legata a un terroir unico e caratterizzante, delle lavorazioni tradizionali in cantina e naturalmente dell’ecosostenibilità delle pratiche agricole sono valori decisivi.
Non siamo più negli anni Novanta del “turbo modernismo” enologico e della deregulation vitivinicola dove l’imperativo era fare un vino “palestrato” per prendere un buon punteggio dai soliti quattro giornalisti di grido. Sembra passato un secolo: Internet, i blog e il movimento dei vini naturali hanno stravolto le aspettative e la scala di valori di tutti i buyer di alto livello, da Tokyo a San Francisco. Nessuno degli importatori con cui mi interfaccio acquisterebbe mai un Etna Rosso o un Verdicchio di Matelica perché gli comunico che ha preso Tre Bicchieri o 94 punti da Parker… solo i tristi monopoli del Canada usano ancora i premi e i punteggi per le graduatorie dei loro tender. Quando ricevo i comunicati stampa dalle agenzie di comunicazione che seguono determinate aziende e leggo dei loro nuovi vini a volte ho l’impressione che i nostri enologi consulenti siano rimasti indietro rispetto al mercato. La confusione è comprensibile, c’è tanto vino, forse troppo vino sul mercato, negli ultimi vent’anni sono germogliate aziende nuove e imbottigliatori come funghi. Ricordo il mio primo Vinitaly nel 1993… gli espositori saranno stati forse la metà rispetto a oggi.
Questo detto, devo però aggiungere che l’iniziativa privata di un selezionatore o di un importatore non basta a creare market recognition per un vitigno autoctono o una denominazione minore. La comunicazione della tipicità di un vitigno o di una denominazione non può essere lasciata a una singola azienda, perché si perderebbe nel vuoto. Una comunicazione efficace va fatta a livello di gruppo di produttori, che si tratti di consorzio (laddove esiste, è unito e opera bene) oppure di libera associazione di vignaioli amici che condividono un progetto, uno stile e una visione di tipicità. E questo è un punto dolente del nostro comparto vitivinicolo, lo sappiamo, siamo un paese di individualisti che fanno fatica a fare squadra e lavorare assieme, le scissioni all’interno di tanti consorzi e la breve vita di tante associazioni export lo testimoniano.
Infine, la strategia di comunicazione di un vitigno autoctono e del suo territorio va pensata e va personalizzata in funzione del mercato estero che si vuole colpire e aprire. Non tutti i mercati esteri sono ugualmente ricettivi per la Malvasia di Casorzo oppure per il Frascati – faccio per dire. Il primo passo è indagare i gusti, le cucine, le abitudini alimentari e di consumo del vino nei diversi mercati esteri in cui si vuole esportare, per capirne il potenziale minimo e massimo. E per fare questo ci vuole curiosità, ci vuole disponibilità a viaggiare e magari anche l’umiltà di ascoltare professionisti locali in grado di agire da mediatori culturali e commerciali.
Originalità e innovazione nel packaging: su mercati che spesso non hanno i nostri stessi paradigmi culturali, infrangere le regole e proporre etichette e formati fuori dall’usuale può essere una scelta vincente o può risultare controproducente?
Una domanda molto stimolante! La capacità di innovare nella grafica e nella comunicazione del vino, in maniera anche dissacrante e “pop” appartiene ai vini del Nuovo Mondo, che si sono dovuti inventare un proprio spazio di mercato nuovo e alternativo rispetto ai vini del Vecchio Mondo, ovvero Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Germania, ecc. Giustamente molte cantine in California, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa hanno puntato sul concettuale, sul logo virale, sul colore, sulla fantasia dei nomi e talora sulla provocazione bella e buona, non avendo una tradizione e un’immagine consolidata nei secoli su cui puntare. Ma i buyers ventenni o trentenni di New York, Shanghai e Singapore con i quali lavoro, che vivono in megalopoli iper-moderne e multietniche e appartengono alla generazione delle reti sociali, quando pensano al Vecchio Mondo sognano antiche cantine immerse da secoli in una verde e sonnolenta campagna, con le vigne gestite da generazioni dalla stessa famiglia fedele alle proprie tradizioni, in un mondo agricolo a misura d’uomo dove il tempo scorre più lento. Questo può far sorridere, ma noi siamo esotici per un cinese esattamente come la Cina appare esotica ai nostri occhi. Parlo della Cina anche perché il rispetto delle tradizioni e la devozione degli avi fondatori sono due pilastri del Confucianesimo, che è un po’ la loro religione di stato. Anche così si spiega la preminenza dei vini di Bordeaux in Cina, grazie alla politica conservatrice della loro comunicazione del vino bordolese (avete mai visto un vino di Bordeaux in bottiglia Borgognotta?) e a quelle etichette tutte simili ed eternamente costanti nel tempo: il disegnino del vecchio Chateau, il viale tra le vigne, il muretto, il vecchio blasone nobiliare. I nostri clienti in giro per il mondo non guardano le nostre etichette come noi le guardiamo.
Tornando al discorso su forme alternative di packaging, prendo sempre spunto dalla mia esperienza in Cina, che è proprio un mercato – si penserebbe – fluido e anticonvenzionale, cioè non irrigidito sui nostri paradigmi mentali old world ed “eurocentrici”. È un mercato che conosco bene e visito tre/quattro volte l’anno dal 2010. Se per “packaging fuori dall’usuale” intendiamo un contenitore diverso dalla bottiglia in vetro, allora non saprei indicare una success story o un “caso marketing” di alcun tipo. La bottiglia di vetro regna sovrana, magari con innovazioni vistose tipo sleeves o profili insoliti, con innesti di stoffa o brillanti, con gadget annessi o chiusure eccentriche, ma sempre bottiglia di vetro è. Non ho visto contenitori alternativi tipo lattina, plastica o tetrabrick, eccetto sulle linee aeree e sui treni, ma si tratta di un segmento tutto particolare. Esiste invece il mercato dei bag-in-box, che è in crescita come nel Nord America e nel Nord Europa, e sul quale si può fare un discorso a parte.
Come nota di colore… mi è capitato di esportare vecchi Marsala di pregio in bottiglie di ceramica (apprezzatissime in Cina peraltro perché il rice wine o vino di riso Cinese è quasi sempre imbottigliato in flaconi di ceramica), ma parliamo di un caso isolato e un prodotto molto particolare. Perciò, per la mia esperienza personale anche nei mercati di frontiera e lontani dalla cultura del vino del vecchio mondo, la bottiglia di vetro rimane ancora oggi, nel 2019, il contenitore largamente dominante per i vini di qualità e anche per quelli di massa.
Fermo restando che le classiche bottiglie di vetro da 0,75 l continuano a detenere la maggiore quota di mercato a valore (72,5%), da una recente analisi Nielsen si evince che tra il 2016 e il 2017 negli USA, in GDO, il valore a crescita più rilevante è stato quello dei vini in lattina (+59,5%). Come commenta questi dati? Secondo la sua esperienza, l’adozione di un wine package design alternativo può essere un driver chiave negli acquisti?
È significativo che la ricerca Nielsen da lei citata si riferisca alla GDO. In GDO valgono regole diverse rispetto all’Ho.Re.Ca. e il comportamento dei consumatori è più disinvolto e impulsivo, inoltre il vino è un articolo in vendita tra tanti altri e appare meno “aulico”, meno incorniciato in un’immagine tradizionale da enoteca. Mi è capitato di trattare con catene americane della GDO come Trader Joe’s o WholeFoods ma sempre e solo per vini in bottiglia.
La principale alternativa al vetro è il bag-in-box, in costante crescita anche per impulso di una certa immagine “ecologica” associata a questo formato (in effetti c’è meno scarto di vetro, tappi, etichette, capsule), soprattutto in Scandinavia e nel resto del Nord Europa. Al riguardo il fenomeno più interessante è quello dei bag-in-box per vini medium range o premium, e potrei citare il caso di una famosa azienda di Langa il cui fatturato è basato in buona parte sulle vendite di Barbera, Dolcetto, Nebbiolo, ecc. di buona qualità in bag-in-box, per il mercato norvegese.
Nel mercato USA questa tendenza non è ancora pienamente recepita, i vini bag-in-box sono vini di consumo quotidiano o house wine in ristoranti e steakhouses. Un fenomeno tipicamente americano è quello dei vini in bottiglione da 1,5 litri, detti anche jug wines (vini damigiana): un fenomeno che da noi è andato scemando, penso anche in GDO, e che invece resiste ancora negli States ed è legato alla natura del territorio americano, dove lo shopping si fa in SUV e si carica il pick-up sul retro delle enoteche. Per la mia limitata esperienza direi che il bag-in-box è il principale formato alternativo al vetro, molto più che la lattina o il tetrabrick.
I produttori italiani come stanno rispondendo all’evoluzione del mercato? Tendono a rimanere fedeli al vetro o sperimentano nuovi formati di packaging per competere a livello internazionale?
Sperimentare nuovi formati e nuovi materiali di packaging richiede capitali. Se guardo al parco aziende italiane con cui lavoro oggi soltanto le cantine cooperative o gli imbottigliatori privati di grandi dimensioni sono attrezzati per gestire una linea bag-in-box o una chiusura Stelvin/Screwcap. Questo lo capisco, se non c’è la domanda, se non c’è la massa critica per implementare un packaging alternativo, semplicemente non lo si fa. Produrre vino è già di per sé un’attività che richiede elevata liquidità e anticipo di capitali, con ritorni sull’investimento iniziale medio-lunghi o lunghi… e la testa di tanti produttori è sempre sugli investimenti da fare in vigna e in cantina, prima di tutto. Questo lo capisco, è naturale.
D’altra parte vini ottimi e con un ottimo potenziale di mercato possono essere penalizzati da etichette inadeguate a comunicare il messaggio che il vino contenuto all’interno porta in sé (ovvio per il produttore, ma sconosciuto all’operatore e al consumatore). È vero che l’etichetta la propone il grafico, ma il capitolato e i core values, i valori chiave che l’etichetta deve manifestare non possono non provenire dal produttore. È vero che Michelangelo ha dipinto la cappella Sistina, ma fu Papa Giulio II con i suoi consiglieri a dettargli il “capitolato” per l’affresco, cosa rappresentare e quali santi, quali profeti e quali demoni inserire nei diversi punti della volta…
Un’etichetta innovativa e fuori dagli schemi può, e come, influire sulla percezione di valore e la reputazione dell’azienda?
Durante l’ultimo viaggio di lavoro in Cina, un paio di mesi fa, ho visto il Terminal 1 dell’Aeroporto Internazionale Pudong di Shanghai completamente tappezzato da enormi banner pubblicitari della nota marca di Champagne Moët & Chandon, che promuovevano con una grafica iper aggressiva e “techno pop” il loro primo Champagne da bere con i cubetti di ghiaccio dentro… in bicchieri di plastica colorati di bianco e logati Moët & Chandon. Basta cercare su Google “Moët Ice Impérial”; è sia Demi-Sec che Demi-Sec Rosé, proposto in sobrie bottiglie con sleeve multicolori. Beh, che dire… se una multinazionale del lusso come LVMH sviluppa oggi una campagna pubblicitaria di questo tipo per uno dei marchi francesi di più lunga storia e prestigio, in barba a una AOC gloriosa come la Champagne, nel segmento delle bollicine premium… tutto è possibile! Cosa avremmo detto in Italia se una delle nostre grandi aziende spumantistiche se ne fosse uscita con una campagna di marketing di questo tipo? Eppure nessuno tra i nostri bloggers o giornalisti ha gridato allo scandalo di fronte a un nome come Moët & Chandon. Si tratta di un estremo e forse solo Moët & Chandon può permettersi questo tipo di shock marketing. Mi dispiace suonare un po’ conservatore e vecchio stile, ma francamente mi è capitato tante e tante volte di constatare rassegnato che le buone vecchie etichette degli anni ‘60, ‘70 o ‘80 erano molto più iconiche e identitarie dei successivi tristi restyling “concettuali”, minimal e di “alleggerimento”.
Da questo punto di vista i nostri amati-odiati cugini francesi dimostrano di saperla molto più lunga di noi, e di conoscere meglio i propri vantaggi competitivi: la tradizione, la storicità, l’immutabilità di una storia familiare. Non ricordo casi di aziende top in Borgogna, a Bordeaux, in Alsazia, in Rodano o in Champagne che abbiano stravolto il proprio marchio e le etichette da un giorno all’altro. Mi piacerebbe fare un confronto tra spesa media per studio grafico e sviluppo del marchio dell’azienda vitivinicola media in Francia vs Italia… Lo so, l’Italia è la patria dell’industrial design, siamo tutti designer, appassionati d’arte e individualisti nel gusto e nello stile… ma io tremo ogni volta che un produttore mi annuncia: «sai, sto rifacendo le etichette, ci voleva una rinfrescata, te le manderò a breve». Booom! In primo luogo su molti mercati le etichette vanno approvate, e una nuova etichetta vuol dire nuova approvazione: è lavoro in più per me e per il mio importatore. In secondo luogo faccio sempre presente che se un giorno io vado al supermercato per comprare la pasta Barilla e non vedo più la macchia blu compatta sullo scaffale che da sempre segnala le confezioni Barilla… è più facile che io acquisti un’altra marca. Un packaging stabile nel tempo suscita nel consumatore quel family feeling o familiarità col marchio che i teorici del marketing cognitivo indicano come un obiettivo strategico da raggiungere. Una buona fetta di consumatori è pigra e si muove con moduli di comportamento inerziali, ripetitivi… A volte mi sembra che certi produttori sentano il bisogno di cambiare le etichette dei loro vini per noia o per moda, come si cambia l’auto vecchia con l’ultimo modello o il guardaroba in base al colore in voga questo autunno. Il caso peggiore è quando la nuova veste grafica della bottiglia, sviluppata magari da un grafico lasciato solo, sul quale il produttore ha scaricato interamente la responsabilità di “rinnovare l’immagine aziendale” è assolutamente anonima, genericamente “contemporanea” senza capacità di evocare il territorio di provenienza. Oppure peggio, capita che una nuova etichetta sia in evidente contrasto con la natura e il profilo sensoriale del vino che rappresenta, e altresì con il nucleo di valori incarnati dall’azienda. Può succedere. Naturalmente queste considerazioni valgono per denominazioni e aziende con una lunga tradizione alle spalle, e non sono poche in Italia. Non si applicano ad aziende giovani e denominazioni d’origine prive di una immagine consolidata.